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L’importanza di prendersi del tempo (dopo due mesi di quarantena)

Tornerò a parlare di viaggi, lo prometto. Prima di farlo, però, mi sento di condividere con voi una riflessione che mi porterà a cambiare il modo di farlo, o almeno questo è l’intento.

Mi ci sono voluti due mesi di reclusione in casa per raccogliere le idee e trovare la spinta, finalmente, di raccontare la mia esperienza di due mesi a Zagabria, un periodo che risale a più di un anno fa! Dopo aver riflettuto a lungo sul motivo per cui non avessi ancora parlato per bene (si ok, lo avevo accennato qui) di questa città così importante per me, ho capito che le ragioni spaziano dal non averlo fatto subito (sempre meglio buttar giù le impressioni a caldo, perché poi pigrizia e memoria possono giocare brutti scherzi) al non essermi trovata nella “fase giusta”. Insomma chi vorrebbe leggere di una città vissuta in inverno quando in realtà là fuori è primavera? E chi sarebbe interessato a descrizioni che risalgono all’anno precedente, quando il mondo cambia così velocemente?

Ebbene, inaspettatamente il mondo si è fermato e, per adesso, sembra che stia per ripartire molto più lentamente di prima. Torniamo però un attimo alle fasi, perché penso che rappresentino un punto cruciale di questo periodo storico. Le fasi si innestano in un tempo circoscritto e riguardano un evento eccezionale. Le fasi della gravidanza, le fasi dell’innamoramento, le fasi della malattia (giusto per restare in tema) e così via. Come spiega molto bene Francesca Melandri in questo articolo pubblicato sul The Guardian e rivolto agli inglesi (“vi scrivo da futuro, più che dall’Italia”- parafrasando la giornalista), il Covid-19 ha dato origine a un paradigma nuovo nella storia contemporanea, avviando una serie di fasi in cui, probabilmente, molti di noi si riconoscono. L’incredulità, il panico, la preoccupazione e l’inquietudine, la solidarietà e l’attivismo, l’accettazione, la rabbia, la noia, la speranza. Con aggiunte e cancellature, ognuno di noi potrebbe stilare la propria personale linea temporale di fasi che hanno attraversato la propria vita in questo lungo lasso di tempo.

La mia potrebbe essere riassunta così: in un primo momento ho reagito con un forte distacco dal generale allarmismo, rifiutando di credere nella gravità della situazione per non cedere al panico generale; come conseguenza la preoccupazione mi è piombata addosso tutta in un colpo, provocandomi un enorme stress per un sovraccarico di pensieri, alimentato da storie di cronaca locale che coinvolgevano conoscenti e dal suono delle ambulanze che sembravano non finire mai. Sono stata in ansia per ogni singolo aspetto della società – dalla salute dei miei cari e amici alle sorti dell’umanità, passando per i problemi economici e sociali conseguenti alla pandemia. In quella fase, non avevo alcuna voglia di fare tutte quelle fantastiche cose per passare il tempo proposte prontamente da centinaia di liste pubblicate in ogni angolo del web: gli unici contenuti di cui avevo voglia di fruire erano storie catastrofiche come 1984 di Orwell (prontamente scaricato su Storytel), il film The Martian (intelligentemente inserito nei palinsesti di una tv generalista) o gialli in cui ci si deve concentrare per scoprire l’assassino (La verità sul caso Harry Quebert e Freud sono state le serie tv che hanno occupato le mie serate e mi ci sono talmente aggrappata da non essermi nemmeno resa conto della loro qualità a tratti scadente).

Già, quando il futuro è oscuro e tutte le prospettive di viaggio o di festeggiamenti sono svanite, serve qualcosa a cui aggrapparsi. Per mia grande fortuna (o almeno così mi è sembrato) il lavoro ha giocato un ruolo importante nel mantenere salda la mia salute mentale. Poco importava se ci ho dedicato albe, notti, sabati e domeniche dal momento che mi permetteva di non pensare.

Piano piano, un nuovo equilibrio stava prendendo forma nella mia routine, fatta ora di letture mattutine e allenamenti fisici serali (la newsletter di Good Morning Italia e il canale YouTube di MadFit sono diventati i miei nuovi amici immaginari), intervallati da gustose ricette sperimentate nella cucina di casa (fatte da me, molto poche a dire il vero, ma certamente sbaffate con grande piacere).

Ed eccomi entrata nell’ultima fase (per ora), quella caratterizzata da una grande stanchezza e da un desiderio di riappropriarmi del mio tempo, di un po’ di tempo per me. Ora che sembra vedersi la luce dopo il tunnel (per non parlare dei colori e dei profumi che la primavera ci sta regalando ogni volta che si apre la finestra), ho una grande voglia di viaggiare certo, ma questa emergenza mi ha reso anche più paziente e comprensiva nei confronti delle limitazioni e dei sacrifici imposti dall’esterno.

Insomma, non chiedo di poter festeggiare il mio trentesimo compleanno al ristorante, né di potermi spiaggiare al sole con un frullato di frutta fresca in mano. Mi accontento di poter staccare il telefono, di non lavorare nel weekend, di non aprire il computer (fatta eccezione per videochiamate con persone che si preoccupano per come sto e viceversa) e di stare un po’ lì (anzi qui) a non fare semplicemente niente.

Perché, tra le tante questioni che sono state snocciolate in questo periodo di grandi cambiamenti nelle nostre abitudini, c’è anche quello della privacy. L’essere chiusi in casa ma comunque potenzialmente raggiungibili da tutti, senza avere “la scusa” di dire “non ci sono” (perché lo sanno che ci sei) non è sempre una cosa positiva. La nostra libertà personale, anche qualora fosse limitata da cause maggiori, dovrebbe sempre includere la possibilità della negazione: esercitare il diritto di negarsi, il diritto di stare in silenzio, il diritto di dire di no. Ecco che quindi la mia nuova fase ritorna alla negazione, ma non quella dei fatti cruciali che ci sono e ci stanno accadendo, ma piuttosto quella in cui – all’interno di tale situazione – siamo in grado di creare nuovi spazi di azione che sanno fare di necessità virtù. E il riposo, il non-fare nulla sono la base che permette di esercitare il proprio potere generativo, come spiega molto bene la psicologa Monica Bormetti in questo TED Talk.

Sto parlando della capacità di progettare, che tutti noi abbiamo. Si tratta di un esercizio che richiede una grande fatica, ma che rappresenta anche la strada verso l’agognata felicità. Un altro importante ingrediente necessario allo scopo è, guardate un po’, il tempo. Non si possono fare progetti senza aver prima “analizzato i dati”, per capire cosa ha funzionato e cosa no, per individuare le ragioni per cui qualcosa non va e, soprattutto, per ammettere a noi stessi che qualcosa che non va… c’è.

È certamente molto più facile nascondersi dietro la scusa del “non ho tempo”, spesso inconsapevolmente. Perpetuare un ruolo che non sappiamo più chi ci ha imposto, ma poco importa, perché è quello che ci rende accettabili agli occhi degli altri e ci permette di staccare la spina nel fine settimana, per concederci quel meritato riposo dalla vita e che – proprio per questo – deve essere da lei il più diverso possibile: speciale, costoso, elettrizzante o perlomeno lontano.

Quando mi ponevo le domande circa lo scrivere l’articolo su Zagabria, ero mossa da un senso del dovere nei confronti – prima ancora di un certo pubblico – della definizione che avevo scelto per me stessa. Dovevo raccontare la città, dal momento che l’avevo visitata, e dovevo approfittare del fatto che fosse un luogo non ancora famoso dal punto di vista turistico… avrebbe generato un articolo speciale e avrebbe contribuito a rendermi una “scrittrice” speciale! In altre parole, le logiche di marketing o – se vogliamo astrarre il concetto – le logiche dell’accettazione sociale – prevalevano sul reale significato che aveva avuto per me quell’esperienza e su quanto potesse davvero raccontare agli altri. Non ero più in grado di estrapolare il vero potere di una narrazione, talmente ero impegnata nella mia corsa contro il tempo.

Ed è proprio questo che la gigantesca pausa in cui il mondo si è (o è stato, come volete) messo ci ha insegnato, secondo me.

Pensate alla vostra vita prima della pandemia, a tutte le volte in cui avete conosciuto una persona nuova, magari incontrandola inaspettatamente mentre eravate in un locale con gli amici o al parco con il vostro cane o il vostro bambino (sì, succedeva proprio così! Si usciva in due o in tre, ci si incontrava con altri, ci si spostava, ci si imbatteva in altri ancora e capitava che, prima di andare a letto, si avesse fatto la conoscenza del “padre di tizio” o del “fidanzato di tizia” senza darci poi tutto quel peso).

Ebbene, la prima domanda che si fa in queste occasioni è: “cosa fai nella vita?“, sostituibile liberamente con la variante più distaccata “di cosa si occupa?” o quella più diretta “che lavoro fai?” / “Studi?”. E diciamo che rispondere con un bel ruolo definito è senz’altro più accettabile che dire “sto cercando me stessa”.

Che le etichette non mi siano mai piaciute non è un segreto, ma non dev’esserlo nemmeno la mia perenne ricerca di una definizione, di un ruolo appunto. Ho passato gli ultimi tre anni della mia vita professionale a sbatterci la testa contro e – nel frattempo – a rispondere a domande come quelle sopra nel modo più confuso che si possa immaginare. Prima di pronunciare parole come “copywriter”, venivo assalita dal terrore di dover fare una bella figura attraverso una certa eloquenza e mi guardavo bene dal promuovermi come “insegnante di italiano”, pensando a tutti i dubbi linguistici mi stavano mettendo a dura prova durante le lezioni ai miei studenti.

Quello che questa quarantena mi ha fatto capire è che, prima ancora di trovare un ruolo, bisogna cercare un senso. Questa pandemia è riuscita a spazzare via, nell’arco di soli due mesi, milioni di ruoli (qui ci sono i numeri delle persone che a marzo 2020 non sono più stati in grado di rispondere alla domanda “di cosa ti occupi?”); ma questa pandemia è riuscita anche a regalarci del tempo per riflettere sulla nostra vita, indipendentemente di quanto (o quando) siamo riusciti a utilizzarlo. Forse molti come me hanno avuto bisogno di alcune fasi prima di riuscire a farlo. Forse altri si sono ritrovati fin da subito a dover gestire una così grave incombenza: mettersi in discussione, che in altre parole equivale a prendersi del tempo per sé. È qualcosa che va oltre le due ore settimanali di sport in palestra, la seduta di meditazione giornaliera o il weekend fuori porta; è piuttosto quella condizione di riflessione che annulla i confini tra i nostri ruoli sociali, professionali e familiari, rendendoli coerenti con i nostri valori.

E forse ora (a dire il vero lo spero con tutto il mio cuore) le persone non smetteranno di domandarsi a vicenda “che cosa fai nella vita?” per paura della risposta, ma inizieranno a rispondere senza vergogna “mi sto prendendo del tempo”.

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