Quando il tuo mondo diventa quello degli altri (e non è poi così bello)

Prima che questo nuovo paradigma iniziasse (apro subito una parentesi: mai avrei immaginato che questo concetto astratto, paradigma, potesse un giorno trasformarsi da parola scritta sul mio libro di sociologia a realtà concreta della mia quotidianità) ho desiderato ardentemente che gli altri provassero a vivere la mia vita lavorativa anche solo per un giorno. Sì, perché – da quando sono freelancer – sono stati pochi i giorni in cui mi sono sentita compresa, o perlomeno rappresentata.

Nella maggior parte delle occasioni, ho percepito una grande distanza tra la mia routine – in cui il tempo è dilatato in un perenne mix tra lavoro e tempo libero – e quello della maggioranza dei miei conoscenti – per i quali la settimana dura cinque giorni feriali e due festivi e a cui, senza doversene preoccupare troppo, ogni mese arriva lo stipendio sul conto in banca. Li ho sempre guardati con una certa invidia per una cosa in particolare: la libertà di non preoccuparsi del futuro.

Io, al contrario, per tre anni ho vissuto nell’ansia di non riuscire ad arrivare a fine mese. Il 50% dei miei pensieri è stato indirizzato alla ricerca di nuovi clienti per potermi mantenere economicamente e per poter sostenere i miei sogni. L’altro 50% delle mie risorse mentali è stato invece destinato al vero e proprio lavoro in senso pratico: cose da scrivere rispettando le deadline a un’eccellente livello qualitativo (altrimenti, avanti il prossimo) e lezioni da fare a studenti a cui viene sempre chiesto un feedback sulle mie prestazioni. Volendo fare la tragica (che mi pare mi stia venendo particolarmente bene) il fantomatico “tempo libero” non è altro che “tempo perso”, in questo contesto.

Il Coronavirus stravolge il mondo del lavoro

E poi è arrivato il Coronavirus, che ha ribaltato il mondo. Gli amici con i lavori più solidi hanno iniziato a vacillare a colpi di parole brutte come “ferie anticipate” o “cassa integrazione”, i miei genitori hanno trasferito il loro “posto fisso” in una postazione di smart working casalinga (e per fortuna a casa c’è un computer con una connessione decente).

Improvvisamente, insomma, il mio mondo è diventato quello degli altri: ora ci troviamo tutti insieme a lavorare da remoto, vivendo nell’incertezza. Per me, nulla di nuovo, tutto regolare. L’incertezza convive con me come l’Armadillo con Zerocalcare.

Volendo dirla tutta, le cose (a livello lavorativo, chiaro) non mi sono mai andate bene come in questo periodo. Il lavoro non manca, anzi è persino troppo da gestire. Nell’arco di un mese sono passata da essere “quella messa peggio” a “quella messa meglio”. Il motivo penso sia semplice: negli ultimi tre anni ho superato talmente tante crisi da sviluppare una certa capacità di reinventarmi e ora posso contare su una certa quantità di risorse.

Se siete arrivati a leggere fin qui senza mandarmi a quel paese, volevo dirvi che no, non sto gongolando. Ammetto che all’inizio questa nuova condizione mi abbia fatto dire ad alta voce uno stupito “WOW.”, ma che ben presto abbia lasciato il posto a un costante dispiacere.

Mi dispiace per le mie amiche, che in questi anni hanno resistito a condizioni di lavoro dettate da contratti a scadenza, con stipendi ingiusti e orari di lavoro al limite della legalità. Mi dispiace per chi si è fatto/a strada nella giungla del mondo del lavoro, per farsi un nome sconfiggendo discriminazioni e pettegolezzi a testa alta, lasciando le lacrime amare per il buio della camera da letto. Mi dispiace per le mamme e i papà che si sono accontentati di un lavoro modesto, rinunciando alla carriera per dedicare più tempo possibile alla loro famiglia.

Ho pensato tanto in questi giorni a qualcosa da fare per aiutare queste persone in qualche modo, perché ciò che più mi opprime in questo periodo di emergenza è la sensazione di essere inutile. Certo, posso spiegarvi cosa e come ho fatto io (e lo faccio più che volentieri!) ma quanto può seriamente interessarvi la storia passata di un’altra persona in questo momento? Probabilmente non molto.

La verità è che le persone che ho descritto sopra non hanno bisogno di questo tipo di aiuto. La verità è che sono le persone come me ad aver bisogno di quelle come loro, perché sono le poche, rare, a potermi probabilmente insegnare cosa significhi avere pazienza.

La pazienza è direttamente proporzionale al sacrificio.

C’è un episodio della mia vita universitaria che è fortemente legato a quest’ultima parola e probabilmente molti dei miei “colleghi” se lo ricordano bene. Il motivo è che ci offendemmo tutti moltissimo, quando il nostro professore più celebre – che a quel tempo rivestiva la carica di direttore del dipartimento di sociologia – entrò in aula tutto concitato e, in modo piuttosto rude e impulsivo, scrisse a caratteri cubitali sulla lavagna la parola “SACRIFICIO”, intimandoci con retorica a riflettere su un’asserzione molto semplice: “Voi non sapete cosa vuol dire“.

Ora, dopo tutti questi anni io non ho sinceramente ancora trovato il senso di quel gesto, compiuto – per me ingenuamente – da una persona da cui ci si sarebbe aspettato un certo decoro o perlomeno una certa cautela nell’avventurarsi in un terreno fertile (e salato) di parole come “rette universitarie” e “stipendi dei docenti”. Ciò che più mi aveva fatto arrabbiare era il fatto che lui non avesse la più pallida idea delle nostre realtà quotidiane: per lui forse in quel momento apparivamo tutti come figli di papà, indipendentemente dal fatto che i nostri papà e le nostre mamme stessero facendo grandissimi sacrifici economici per farci stare seduti sulle sedie di un’università privata (quando ci andava bene, altrimenti il pavimento andava benissimo) ad ascoltare le sue accuse gratuite. Per non parlare di chi si stava pagando tutto di tasca propria… Ma non vorrei ora uscire fuori tema.

Il punto è che il sacrificio non è un concetto astratto, è qualcosa che si fa e basta. In silenzio.

In accordo con questo concetto, si può quindi comprendere come esistano diversi tipi di sacrificio (e qui il buon vecchio Emile Durkheim si starà rivoltando nella tomba, dato che sto per scavalcare i suoi importanti studi con le mie teorie accampate). Mi riferisco a quello che leggo e ascolto tutti i giorni in questo periodo di emergenza Covid-19.

Per qualcuno il sacrificio si chiama solitudine, mancanza della propria famiglia, mancanza del proprio amore. Per qualcuno ansia di convivere con una persona violenta. O con la propria depressione. Per qualcuno mancanza della propria indipendenza. Per qualcuno è il dolore di una perdita. Per qualcuno è la preoccupazione di ammalarsi. Per qualcuno l’angoscia da mancanza di lavoro. Per qualcuno la fatica di intrattenere i più piccoli. Per qualcuno la desolazione di una città con le saracinesche abbassate. Per qualcuno la paura di contagiare i propri cari. E potrei davvero andare avanti all’infinito.

Ora che vi ho angosciato per bene, tiriamo le conclusioni. Ma prima, pensiamo tutti per un momento a una cosa e cioè all’utilità di tutti coloro che dieci giorni fa, zitti zitti, si sono trasferiti dalle loro belle case cittadine alle loro belle case di villeggiatura al mare o in campagna. Da un giorno all’altro, nelle loro stories sono comparsi membri di una famiglia allargata che prima probabilmente se ne stavano nascosti negli armadi delle camere da letto. Insieme cucinano pasta, fanno torte, prendono sole in una veranda che è grande come tutto il mio appartamento. Sì, sono molto invidiosa. Invidiosa del loro coraggio, perché io proprio non ce l’avrei.

Bene, ora che sono contenta e ho violato ogni singolo valore professato nella pagina About de La Città Nascosta, tiriamo le fila. Il sacrificio è personale e tutti lo stiamo facendo, in silenzio, secondo le variabili che compongono la nostra vita speciale. Chi fa il furbo, secondo me, potrebbe semplicemente non farcelo sapere e magari evitare di intasare l’Internet con messaggi autoreferenziali che non sono di alcun beneficio per l’umanità, che già siamo a posto con Netflix che riduce la qualità dei video per un eccesso di richiesta di banda, cosa dite?

Spero mi perdonerete, in questi tempi eccezionali.

Una lista di cose belle, per tirarci su di morale

A proposito di inutilità, vediamo di dare una svolta a questo articolo, che già mi sento in colpa. Vi propongo quindi una lista di cose belle (come tante, per fortuna, sono divulgate in questo periodo) scelte tra quelle che mi hanno fatto più ridere e commuovere.

  • La mia studentessa Kim, una cinquantenne che vive a Washington DC, mi ha detto che ogni mattina fa una videochiamata con le sue amiche per augurarsi buona giornata, mentre bevono insieme il caffè.
  • La mia studentessa Philippa, una signora inglese la cui sorella abita a Genova, mi ha detto che in città c’è un locale che cucina pasti gratuiti per il personale medico (potete leggere la notizia qui).
  • Attraverso l’iniziativa Airbnb per Medici e Infermieri, Airbnb mette in comunicazione gli host di tutta Italia che vogliono rendere disponibile senza compenso il proprio appartamento con il personale ospedaliero in cerca di casa (alcuni lo hanno già fatto in maniera autonoma, come questo signore di Bologna).
  • Fin dai primi giorni di emergenza, sono state avviate numerose raccolte fondi da parte di influencers o cittadini privati. Tengo a segnalare quella avviata da Chiara Ferragni e Fedez per il San Raffaele di Milano e quella avviata da Elisa Ghezzi e Mario Azzali per l’Ospedale di Piacenza. Sono certa che anche voi ne conoscete tantissime e che avete partecipato, senza farvi pubblicità e senza pensarci su troppo.
  • Tanti musicisti, italiani e internazionali, stanno proponendo sui social piccoli concerti gratuiti, tramite medley una tantum o una canzone al giorno. Io sto seguendo il mitico Davide Van De Sfroos su Facebook, ma ce ne sono davvero tantissimi altri.
Lo Sciamano sotto l’ulivo – Davide Van De Sfroos
  • Tantissimi artisti, di ogni tipo, hanno dato sfogo alla loro creatività con una forza che è tanto maggiore quanto più ristretta è la loro libertà di espressione. Per esempio, la mia amica Leti ha avviato un podcast su Storytel che si chiama “Storie dalla quarantena” in cui si possono ascoltare le testimonianze di diversi professionisti.
  • Anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo deciso di trasformare il nostro podcast “5×5” in un nuovo format chiamato “3Tips“, ritenendo indispensabile trasformarci in questo periodo eccezionale. Si tratta di free tips diversi, ovvero tre consigli dati da Massimo (che vi parlerà di musica), da Alice (che vi parlerà di cucina) e da me (che non ho ancora capito di cosa vi parlerò nei prossimi episodi, ma nel primo vi parlo di scrittura).

Se volete ascoltare il podcast, lo troverete su SoundCloud o sulla pagina Podcast del blog. Se non volete perdervi nessun aggiornamento in questi giorni pazzi (a vostro rischio e pericolo) potete iscrivervi alla newsletter qui.

Un’ultima cosa… Grazie. Grazie per aver letto queste parole.

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