L’anno scorso, più o meno in questo periodo, in un giorno solo ho fatto i salti di gioia per due motivi. Avevo ricevuto la comunicazione, anzi due distinte comunicazioni a dire il vero, che la mia partecipazione ai progetti per cui mi ero candidata era stata accettata. Sarei partita per quattro mesi all’estero, due in Polonia (a Cracovia) e due in Croazia (a Zagabria). Si trattava per me della prima volta in cui mi lanciavo in completa autonomia in una piccola avventura lontano dalla mia comfort zone.
Ci sono tanti motivi per partire. Motivi di studio, di lavoro, di svago. Qualche volta sei costretto dai genitori, dall’azienda per cui lavori o, molto più spesso, lo fai per amore. Altre volte, senti la necessità di scappare dai problemi. Per non parlare poi di chi viaggia perché il suo Paese è diventato un luogo pericoloso in cui vivere, ma questo è un altro discorso. Se una persona ha la fortuna di partire in modo volontario, non c’è mai una sola ragione a spingerlo a farlo, ma una commistione di emozioni, ragionamenti, dubbi, paure e intuizioni. Io, per esempio, sono partita per un bel po’ delle ragioni che ho menzionato, anche se molte di esse mi erano ignote nel momento in cui ho acquistato i biglietti e altre lo sono tutt’ora.
Rileggendo vecchi miei articoli, mi rendo conto di quanto il mio atteggiamento verso il binomio viaggio-casa sia cambiato. Prima, pensavo che il primo fosse un modo per sopportare la seconda, per tirare avanti. Lo consideravo un atto coraggioso, che non tutti sono capaci di affrontare perché casa è comoda, casa è casa. Oggi invece penso che il primo sia il modo più stupefacente che esista per vivere la seconda.
Quello che ho imparato durante i miei viaggi, nella loro insignificanza se confrontati con quelli di moltissime altre persone, è che per essere chiamati tali devono trovarsi all’estremo opposto di una vacanza. Per intenderci, un viaggio non è una parentesi nella quotidianità, ma un solco che la rende più profonda. La smuove, la spettina, la risveglia. Io proprio non capisco quelli che mi dicono “beh, quando sei via puoi essere chiunque tu voglia, tanto nessuno ti conosce”. Tutte le volte che sento frasi così, scoppio in risate mentali fragorose. Penso che devo essere davvero stupida, perché io tutte le volte sono sempre io e, anzi, se possibile i miei difetti si amplificano quando sono in un altro Paese. Poi ci penso su meglio e capisco che in realtà, se per stare bene hai bisogno di essere qualcun altro, c’è qualcosa che non va. Viaggiare di per sé non è un gesto coraggioso, semmai lo è il decidere di partire da casa. Perché una volta che ti ritrovi con una valigia in una mano e una manciata di monete straniere nell’altra, ti rendi conto che sei sempre tu. Sei sempre italiana, sei sempre una frana a fare i conti e il colore rosso continua a non piacerti.
Proprio sul primo punto vorrei soffermarmi un attimo. L’appartenenza. Quando sei all’estero, ci devi fare i conti come mai avresti sospettato. Quando ti presenti alle persone, sei l’italiana. La tua cadenza è inconfondibile, i tuoi tratti sono mediterranei, la tua cultura – prima latente – ti si tatua in fronte. E lì sì che sono casini. Mai come in quei mesi mi sono ritrovata in difficoltà di fronte a domande circa la storia e la situazione politica del mio Paese. I miei interlocutori non si accontentavano di sapere che “la mia acqua preferita è la Ferrarelle” o che quella sera, in un locale del centro, si sarebbe tenuto un evento speciale. No, le conversazioni a cui mi ritrovavo a partecipare mi rendevano una rappresentante del mio Paese durante i curiosi confronti con quelli degli altri su temi quali la parità di genere, il salario minimo, il tasso di disoccupazione, la tolleranza, la religione, l’istruzione, il clima. I ragazzi universitari con cui condividevo le mie giornate mi interrogavano sul “Patto di Bologna” e io non solo non sapevo cosa fosse, ma nemmeno lo avevo mai sentito nominare. Mi domandavano poi delle più famose città italiane, specialmente quelle del Sud e io, improvvisamente, mi rendevo conto che l’Italia per me è sempre esistita da Firenze in su. Certe giornate, specialmente quando stavo vivendo nel piccolo ostello di Cracovia, avevo paura a chiedere agli sconosciuti che incontravo per colazione “Where are you from?” per timore di non saper collocare geograficamente la loro risposta. La maggior parte delle volte, purtroppo o per fortuna, si andava ben oltre le questioni più “locali”. Si impiegava il tempo trasmettendosi a vicenda informazioni raccolte grazie a una fame di conoscenza insaziabile, dall’esistenza di un pesce che crea opere d’arte con la sabbia, fino a esternare la grave preoccupazione per la salute della nostra Terra, quella patria che condividiamo tanto quanto le differenze che ci caratterizzano.
Inutile dire che confrontarti con l’altro ti mette a nudo: ogni giorno ti rendi conto di quante cose ignori, di quante cose non sono mai state oggetto della tua preoccupazione, semplicemente perché non stanno sotto i tuoi occhi e quindi non ne percepisci l’esistenza. Ci sono poi altre questioni, che invece ti si rivelano in tutta la loro franchezza, senza che tu abbia modo di reprimerle. Si tratta di tutte quelle verità celate nel tuo cuore, che non sei mai stato in grado di ammettere a te stesso. Riguardano gli affetti, in primis la famiglia, l’amore e l’amicizia. Senza accorgertene ti ritrovi a raccontare a degli sconosciuti dei vari personaggi che rendono la tua vita interessante, anche se non ci avevi mai pensato. Capisci che sono loro a muovere l’azione, a innescare la miccia, a girare la chiave o come dir si voglia. Ti rendi conto che vorresti che fossero lì con te in un determinato momento perché quel posto lì sarebbe proprio perfetto per lei, quella vista vorresti condividerla con lui e quell’evento… oh, a te non interessa poi così tanto ma se ci fossero loro ci andresti di sicuro.
E poi c’è la solitudine, la miglior compagna di avventure che potresti desiderare. Si tratta di una sensazione diversa da quella che potresti provare nella tua città natale, perché è giustificata dal tuo essere fisicamente lontana. La solitudine all’estero è un dono prezioso da esplorare, perché è il seme da cui può nascere l’indipendenza e la capacità di stare bene con sé stessi. La solitudine ti porta a guardarti attorno con maggiore attenzione, a fare ricerche per cercare di uscirne quanto basta per renderla più interessante. La solitudine a Zagabria mi ha portato a visitare un museo di cui non avrei colto il senso se fossi stata con qualcuno, e a iscrivermi a un corso di tango, dove ho avuto modo di conoscere persone speciali. Penso che sia la solitudine a dare spessore alle cose che ti succedono quando sei lontano da casa, perché le fa brillare di colore, come un arcobaleno sullo sfondo di un cielo plumbeo.
Ricorderò per sempre l’ultima mia serata nella capitale croata, quando mi sono sentita leggera per tanti motivi. La mia coinquilina del tempo, una ragazza straordinaria nei suoi meravigliosi vent’anni, si sarebbe esibita in uno spettacolo di slam poetry (poesie musicate) che aveva organizzato nel corso del progetto. Era visibilmente tesa e, per la prima volta, mi aveva chiesto consiglio su come vestirsi, a me – a cui importa davvero poco dell’abbigliamento – per lei – a cui importava ancora meno. Avevamo optato per un completo total black composto di vestito a collo alto e calzamaglia di lana pesante, accordandoci sul fatto che sera+inverno+ Zagabria= meglio non prendere freddo. Prima di uscire di casa, pronte ad affrontare l’imprevedibilità dei trasporti pubblici cittadini, le avevo mostrato il contenuto del mio porta-gioie: un sacchetto in velluto che porto sempre con me, contenente collane e orecchini acquistati durante i miei viaggi, spesso regalatemi da qualcuno. Lei scelse dei pendenti dorati rifiniti da piccole pietre vermiglie che la facevano sentire bella – glielo leggevo negli occhi – più di quanto già non fosse. Quella sera l’ho osservata parlare al suo pubblico con la disinvoltura di chi fa le cose senza pretese. L’ho vista ridere per essersi impappinata, abbiamo scambiato uno sguardo d’intesa, prima che lei ricominciasse a cantare con quella sua voce capace di entrarti nell’anima per non uscirne più.
Quella sera, mi ritrovai a ballare insieme a sconosciuti che avevano preso parte all’evento, uniti dalle stesse frequenze che si erano trasformati in indescrivibili brividi sottopelle. A dire il vero, alcuni di loro li avevo incontrati qua e là, durante la mia routine croata. Ci eravamo incrociati nella sede dell’associazione con cui stavamo collaborando, avevamo scambiato un saluto o preso un caffè di circostanza, nel migliore dei casi erano bazzicati per “casa nostra”, in visita al ragazzo croato che viveva lì in pianta stabile. Nulla di più, perché gli impegni non smettono di esistere semplicemente perché lo vogliamo noi. Quelli ci sono sempre, specialmente quando intraprendi un progetto nuovo. Ma quella sera, quella sera tutti i pezzettini si misero al loro posto, dando un senso all’esperienza vissuta. Sembrarono unirsi da un filo invisibile di consapevolezza, che rivelava un’ammirazione e una curiosità per la vita degli altri senza pari. “Lo so che hai fatto tanta strada per arrivare fin qui” ci stavamo dicendo con gli occhi. Ed è così che sono arrivata a danzare sulle note famigliari di canzoni sconosciute, intrecciando le mie dita a quelle di un’altra anima che viaggia, anche senza aver mai varcato i confini nazionali. Quella sera, persino il fastidioso fumo di sigaretta che impregna i locali pubblici in Croazia sembrò dissolversi come un sogno che diventa realtà.
Altre volte, è proprio la realtà a prendere il sopravvento sui sogni. Come quando sono andata ad Auschwitz. Per fortuna, qualcuno più saggio di me ha troncato sul nascere il pericoloso pensiero che stava mettendo radici nella mia testa: “oramai so già tutto sull’Olocausto”. La verità è che nessun libro di storia, conferenza o film del mondo hanno la capacità esplicativa di un giro tra i geometrici viali alberati dove si lavorava senza sosta, dentro le putride latrine il cui olezzo teneva lontane le guardie e permetteva di rischiare gli scambi della resistenza, lungo la ferrovia dove venivano smistati i deportati (sparati se rompevano le file), a fianco dell’inceneritore costruito fuori dall’area in cui transitavano affinché non si sapesse della sua esistenza (ma solo all’inizio. Dopo, tanto, lo sapevano tutti).
La realtà prende il sopravvento quando ti accorgi che il male non smette di esistere solo perché tu sei partita per un lungo viaggio, con il desiderio di lasciarti alle spalle i problemi e di vivere un’esperienza bellissima. In una delle mie giornate polacche, mentre la meravigliosa piazza centrale si illuminava per le feste natalizie coperta da un manto di soffice neve, rientrai in ostello dopo un fallimentare giro al pronto soccorso. Io e una collega, in preda a una tosse da intossicazione (il clima della città è secco, eppure la sera è invasa da una nebbiolina sospetta, che capisci presto essere causata dalla combustione di carbone nelle fabbriche e, peggio, da quella dei rifiuti ad opera degli abitanti) non riuscimmo a ottenere in farmacia la ricetta per un semplice sciroppo. Sulla porta dello studio medico dell’Emergency un cartello recitava “parliamo la tua lingua” in inglese, italiano, tedesco e francese, ma la conoscenza che insieme avevamo di tutte queste lingue non ci serví a comunicare con un’anziana dottoressa polacca. Tornammo quindi a casa dopo una faticosa camminata nella neve, infreddolite, deluse e provate dalla fatica. Quando aprimmo la porta della nostra stanza, trovammo la nostra amica ungherese sconvolta: mentre era sotto la doccia, qualcuno aveva tentato di entrare con lei. Lei lo aveva allontanato chiudendo istintivamente il pannello trasparente del box e mettendosi a gridare, anche se per tutta la notte non riuscì ad allontanare quel pensiero né dalla sua, né dalle nostre menti.
Ci sono poi i momenti di pura routine, quelli che ti sembrano insignificanti perché fondamentalmente svolgi i tuoi doveri, percorri le stesse strade tutti i giorni, pensi a come risolvere pensieri banali: trovare un posto per fare le fotocopie da usare a lezione, contare le monete per comprare un caffè, aggiudicarti un posto comodo dove terminare di scrivere l’articolo che devi consegnare a fine mese. Si tratta di istanti che riaffiorano alla memoria quando meno te lo aspetti, come testimonianza nascosta della tua esperienza in un paese straniero come abitante. Non turista.
Ma la maggior parte del tempo che vivi all’estero, si rivela pieno. Lo è perché coperto interamente dalla tua persona più vera, scevra dalle etichette con cui gli altri ti identificano o sotto cui, certe volte, ti nascondi. Non puoi essere la sorella di Tizio, la madre di Caio, la moglie di Sempronio perché Tizio, Caio e Sempronio lì nessuno li conosce. Sei tu, solo tu, ad aver fallito e sei tu, solo tu, ad esserci riuscita.

Dopo settimane di difficoltà fisiche e mentali (scarse condizioni igieniche a parte, fare un lavoro che non hai mai fatto non è sempre un gioco da ragazzi), a Cracovia ho saputo gestire per la prima volta una classe di studenti ligi alle regole, seri e severi nei confronti della figura dell’ insegnante. Prima di Natale sono persino riuscita a organizzare con loro una cena di gruppo in un ristorante italiano, in un’altra occasione li ho portati al cinema e – quando abbiamo scoperto che in sala non ci sarebbe stato posto per tutti – mi sono inventata una lezione alternativa in un bar, mettendo in piedi un gioco a tema film. Per un italiano tutto questo può sembrare normale, ma posso assicurare che – considerando la tendenza polacca a seguire gli schemi senza mostrare troppe emozioni – non lo è stato.

Sono cose che puoi leggere, puoi vedere, puoi ascoltare nei racconti degli altri. Ma non saranno mai così efficaci come quando le vivi sulla tua pelle.
Tutto questo per dire cosa? Forse che l’unico modo per vivere davvero è viaggiare? Non necessariamente. E dico sul serio! Penso, senza troppi giri di parole, che per dare un senso alla vita basti farsi delle domande, tante domande. Credo anche che chi non si fa delle domande non sia stupido, anzi sia molto intelligente perché si sta proteggendo. So che interrogarsi ogni giorno su questioni esistenziali non è esattamente l’immagine della salute e, semmai dovessi un giorno avere dei figli, mi auguro con tutto il cuore di non trasmettere loro questo deleterio vizio del pensiero. Tuttavia, il rischio è quello di costruirsi attorno una stanza fatta di muri di gomma tossici e impossibili da abbattere. Ecco, per me viaggiare significa non smettere mai di farmi delle domande, anche se sono faticose da formulare e, nella maggior parte dei casi, non conosco la risposta.
Ora devo andare, il pippone pre-ferragostiano ve l’ho propinato e – al solito – non ho ancora fatto la valigia per domani. Si, perché domani parto per andarmi ad abbrustolire sotto il sole del Cammino Materano perché quest’estate è lui a essere stato eletto come antidoto anti pare mentali, perlomeno per una settimana 😉
Quando torno, oltre a mettermi chili di crema idratante, vorrei parlarvi dell’Erasmus per giovani imprenditori. Non so perché ma sento che sarà quella la mia prossima avventura.